Cinque paia di scarpe, i vestiti del weekend e le ultime cose da sistemare di quelle che avevo portato in vacanza questa estate. Questo vedo sdraiato sul mio letto; mi salutano in maniera sardonica, e occupano prepotentemente il primo posto tra le cose da fare.
Se a questo aggiungiamo la miriade di post-it affissi in camera e i due libri da finire, potrei già ritenermi impegnato per i prossimi giorni. Questo senza considerare i progetti in sospeso, quelli ancora non partiti e i numerosi sogni che non riesco più a chiudere dentro un cassetto.
Siamo tornati alla solita vita autunnale, e già iniziamo a pagare i primi segni di stanchezza, oltre ad un nervosismo legato al fatto di non riuscire a trovare il giusto tempo.
Che balle questo tempo!
Il problema del tempo si è diffuso sempre più negli ultimi anni, causato sicuramente da questa società e dal suo modo di vivere, che non permette più di fermarsi a riflettere. Corriamo, corriamo, dietro ad un qualcosa che iniziamo a seguire, ma che, col tempo, ci dimentichiamo. Spesso finiamo per alzarci una mattina senza neanche sapere effettivamente per quale motivo dobbiamo riscaldare il caffè, quando sarebbe invece meglio lasciarsi accarezzare da Morfeo e da una velina in qualche sogno erotico.
Caspita! L’intenzione non era quella di deprimersi ancor più del necessario, ma, anzi, il motivo di queste righe era proprio l’esatto opposto, perchè credo che a volte basti fermarsi un attimo per ritrovare le giuste motivazioni.
Spesso perdiamo tanto di quel tempo a lamentarci, che non riusciamo a cogliere la ricchezza di quello che ci sta scorrendo tra le mani. E di esempi se ne possono fare tanti…
Mi viene in mente una notizia che lessi qualche anno fa, che sicuramente non sarò l’unico a ricordare. Joshua Bell, uno dei più grandi musicisti del mondo – pagato fior di quattrini dalle migliaia di persone che vogliono assistere al modo in cui riesce a percuotere le corde del suo violino – nel 2007 si era messo a suonare gratuitamente all’interno della metropolitana di Washington, come un qualsiasi altro artista di strada.
43 minuti, suonati con uno Stradivari del 1710, e una scaletta che prevedeva come apertura la “Ciaccone”, dalla Partita numero 2 in re Minore di Bach, a cui ha seguiva l’Ave Maria di Schubert.
La cosa sorprendente non è la follia e la simpatia dell’idea, quanto il guadagno: 32,17 dollari.
32,17 dollari posati senza neanche particolare convinzione da distratti passanti, appena colpiti da quella forma d’arte che in realtà è unica al mondo.
E questo fa ridere. Perchè le stesse persone saranno state quelle che hanno riempito nelle settimane successive teatri, ad un costo che oggi come oggi non ci potremmo permettere in tanti. Sale gremite di gente non in grado di capirne il valore, soddisfatta e compiaciuta dal semplice fatto di spendere soldi.
È un po’ come dire ‘fare 100 km per osservare un paesaggio, rimanendo magari indifferenti di fronte a un tramonto che colora le nostre finestre’.
Se ci pensiamo, la spesa dei nostri soldi e del nostro tempo ha sempre meno un significato legato al reale valore di quello che stiamo facendo, ma è dato quasi da un qualcosa che ci sentiamo in dovere di fare.
Non lo facciamo per il reale beneficio che ci genera, ma per il piacere legato all’idea di farlo.
Conosco cinici che asserirebbero che per averne una dimostrazione concreta basterebbe assistere ad un qualsiasi concerto Jazz…
Questo maledetto concetto di consumismo ci porta ad acquistare e spendere non solamente i nostri spiccioli, ma soprattutto il nostro tempo. Spesso la soluzione della gran parte dei nostri problemi potrebbe essere semplicemente quella di porsi alla giusta distanza. La giusta distanza, perchè ogni cosa deve essere vista e ammirata, ma anche giudicata, nella maniera più corretta. Perchè non si può esprimere un giudizio sul sole mentre ci stiamo andando in collisione, sudando come dei cammelli.
Questa ansia di fare, e di fare bene, fa parte di una delle tante forme di insicurezze che sono sempre più diffuse nella società di tutti i giorni.
Bauman, un sociologo che apprezzo molto, qualche tempo fa parlava di una società piena di incertezza, ma anche di paura, che lui suddivideva in tre tipi: una mancanza di sicurezza esistenziale, una cognitiva ed una personale.
La prima – che negli ultimi anni è arrivata alle stelle – è data dalla paura di perdere il proprio lavoro. Questa tecnologia e questo mondo ci portano a non sentirci più utili, ma anzi facilmente rimpiazzabili da quello che può essere un computer di ultima generazione o un giovane, che, oltre ad avere più energia e belle speranze, presenta soprattutto una minore richiesta economica. La seconda è l’impossibilità di capire questo mondo e di fare progetti sul futuro; dato che non si riesce a fare una previsione su dove andremo a finire tra qualche mese che non venga subito smentita.
La terza è invece legata all’incolumità delle persone a noi care. La cosa particolare di queste paure è che si alimentano a vicenda, e conducono verso una forma di insicurezza generale. Le prime due portano alla terza, ed è proprio per questo che nonostante magari in alcune aree si dimostri una diminuzione del numero di reati, abbiamo sempre più timore per la nostra sicurezza.
Non è semplice uscire da questo panico di massa, ma bisogna almeno provarci.
La prossima volta che verremo tamponati, ad esempio, magari potremmo evitare di farci venire un’ulcera e di linciare il ragazzino alla guida – che evidentemente ha bisogno di qualche lustro in più per comprendere la differenza tra i pedali – ma potremmo invece iniziare a considerare la remota possibilità che non sia finito il mondo, ma che si tratti invece di un problema risolvibile (del rapporto con le assicurazioni ne parleremo magari più avanti).
Mettersi alla giusta distanza: è questo l’obiettivo per questa settimana. Soprattutto il mio, perchè di tramonti se ne possono scoprire tutti i giorni, ma bisogna guardare nella giusta direzione.
Sapete cosa ha detto quel violinista quando si è ritrovato quegli spiccioli rispetto al suo ricco cachet? Sorridendo ha detto che non erano neanche male: avrebbe potuto viverci e non avrebbe neanche avuto bisogno di un agente.