Nella mia vita non sono mai stato un ragazzo particolarmente umile. Fin dall’età di dieci anni, infatti, ho sempre camminato in giro per la città a testa alta, e probabilmente non si trattava solamente del fatto di essere sicuri di sè.
In realtà, pensandoci bene, fin da piccolo ho sviluppato una strana forma di autodifesa personale, che probabilmente ha condizionato pesantemente la mia crescita.
Avete presente gli occhioni gonfi di lacrime dei bambini che scoprono un nuovo oggetto del desiderio e bramano all’idea di averlo tra le mani?
Esistono piccoli esseri umani che riescono a produrre una sonorità tale da poter mettere a repentaglio il record del Krakatoa; con madri, compiaciute, che apprezzano l’estensione vocale delle proprie creature.
A volte mi chiedo se confondano gli spazi pubblici con provini di ammissione alla classe lirica, senza capire che in realtà non sviluppano ammirazione da parte dei presenti, ma, anzi, solamente un’istigazione alla violenza, mista alla convinzione che forse sarebbe il caso di non metterci del proprio al sovrappopolamento del pianeta.
Ecco, io quella sensazione di bisogno non l’ho mai provata. E non perchè fin da piccolo disponessi di tutto quello che desideravo – tutt’altro – ma perchè prima di entrare all’asilo avevo già sviluppato una interessante visione zen della vita, che portava a pensare che quanto in mio possesso fosse già sufficiente e migliore del resto in circolazione.
Adesso, non che fossi un giovane e precoce monaco buddista, possiamo però dire che sono sempre stato una persona molto affezionata a tutto ciò che gli apparteneva.
Negli anni questa cosa non è che sia stata mai particolarmente apprezzata – anzi – dato che sono stato spesso additato come una persona presuntuosa ed eccessivamente fiera, ma ricordo sempre con piacere i vari episodi della mia vita, in cui ho quasi convinto pubblico e amici che anche un sasso, se in mio possesso, era decisamente migliore di qualsiasi altro oggetto in mano al mio interlocutore. A quattro anni spiegai a Filippo – un bambino biondino, mai più rivisto dopo la parentesi dell’infanzia – che il suo pupazzetto era veramente bello, ma si trattava di un oggetto assolutamente riproducibile – dato che era possibile trovarlo in qualsiasi negozio – mentre il mio sasso non solo era unico al mondo, ma aveva un bellissimo colore, più naturale, e sicuramente si sarebbe rotto con molta più difficoltà.
A 3 anni ogni mattina c’era un litigio con mia madre, che, incurante della mia volontà, non cambiava l’idea di volermi accompagnarmi in quell’asilo a pochi metri da casa. – Dai Davide, non fare i capricci. Perchè non vuoi andare a giocare con gli altri bambini? Hai visto quanti giochi ci sono?!?
Quello che proprio non riusciva a capire era che io non è che avessi problemi relazionali con i miei coetanei, ma mi chiedevo semplicemente il perchè mi parlasse di altri giochi, quando io avevo in mente solamente i miei. Quegli anni passarono lentamente, tra traffici geologici e riposini coercitivi. Di quel periodo mi rimangono solo quelle imposizioni, oltre al terrificante ricordo dei pasti. Ancora oggi, camminando per le vie del centro, ogni tanto trovo degli odori analoghi; il mio stomaco si chiude, e in un attimo mi tornano alla mente le difficoltà che avevo a ingurgitare quella poltiglia inconsistente.
Da piccolo ero molto magro, e non ho mai dovuto faticare più di tanto per mantenere la linea.
A scuola, e successivamente all’università, non ho mai avuto problemi a sfidarmi con compagni che prendessero più di me; primo perchè si trattava di un evento raro, e secondo perchè ho sempre visto la mia vita come una competizione con me stesso. Gli altri potevano rappresentare al massimo dei giudici o degli spettatori, ma mai una seria minaccia verso quella che io riconoscevo essere la mia strada.
L’invidia, dunque, credo sia sempre stato uno dei pochi difetti che non mi sono appartenuti in questi lunghi 29 anni della mia vita. Non c’è stato mai nulla che avessero i miei amici che mi colpisse al punto di desiderarla ardentemente.
Eccetto una volta.
All’età di 15 anni iniziai le superiori, e, oltre ai primi viaggi multietnici in bus e i primi problemi puberali dei miei compagni – che avevano un rapporto con il sapone peggiore di quanto Clark Kent fosse legato alla Kryptonite – una cosa sola colpì in maniera decisa lo sguardo incantato di chi per la prima volta metteva il naso fuori dal proprio quartiere.
Era una fredda giornata autunnale, quando, scendondo a spinte dalla vecchia linea “A” che mi conduceva a scuola, il mio interesse fu catturato da un giovane, che, baldanzosamente, camminava lungo il marciapiede davanti a me.
Non perchè avessi dubbi in merito alla mia sessualità, ma ricordo che mi domandai cosa avesse quel giovane di tanto interessante da solleticare la mia curiosità.
Non era sicuramente la camminata, ancora incerta e sbilanciata a causa del peso che reggeva sulla schiena, e neanche il modo di vestire, dato che ricordava un paninaro degli anni ’80. Lo fissai per qualche secondo, giusto il tempo a disposizione prima che si perdesse in lontananza, e, dopo appena pochi attimi, svelai l’arcano.
Quel ragazzino, nonostante la giovane età, aveva già la faccia segnata da un elemento caratterizzante: quel giovane aveva la barba.
Non parlo di una barbetta stile Brandon Walsh anni ’90, ma di una barba vera e propria, con una forma ben definita – alla Pirlo di oggi per intenderci.
La barba. Che fantastica diavoleria era mai quella?
Perchè a 15 anni non avevo altro che qualche peletto sulle gance, invece di una bella e folta peluria, degna di attenzione e simbolo di virilità?!?
Giornate allo specchio a controllare ogni piccola variazione, e ammirazione verso tutti i miti della mia adolescenza, caratterizzati da un unico segno distintivo.
Avessi potuto, avrei scelto un look alla Che Guevara, con un po’ di coraggio avrei emulato il baffone di Freddy Mercury, o, se mai avessi dovuto mostrare la mia saggezza, avrei puntato su Marx o Engels.
Un mio amico, anch’egli più “folto” di me, mi suggerì che era legato alla frequenza con cui mi radevo, troppo sporadica. A quella lametta, regalatami da mio padre, e usata con cadenza semestrale, si sostituì ben presto un rasoio elettrico, con il conseguente autocompiacimento di mostrarsi alla cassa con un tale oggetto, testimonianza inconfutabile della mia maturità.
Credo che al confronto, se avessi portato 6 confezioni di preservativi extra large, dicendo alla cassiera che mi aspettava una notte intensa, sarei stato sicuramente meno sbruffone rispetto al modo in cui guardai quella ragazzina, che, al momento di far scorrere il codice a barra, si trovò una versione moderna del Casanova veneziano.
Credo che anche Arturo Fonzarelli avrebbe avuto qualcosa da imparare, vedendomi fissare con aria soddisfatta quella biondina.
“Ehi baby, se vuoi qui davanti a te c’è un uomo. Un vero uomo”.
Questo diceva il mio sguardo, o, per meglio dire, pensavo che dicesse, dato che probabilmente quella sfortunata avrà poi dovuto fermarsi un attimo per il ridere.
Ma io ero soddisfatto. C’è chi come data importante ha la prima volta, chi il primo bacio, o chi aspetta i 18 anni. Io un uomo lo sono diventato quel pomeriggio.
Negli anni la barba è diventata sempre più diffusa, pavoneggiata con sempre maggiore soddisfazione in giro nei locali e nelle aule dell’università.
Diciamoci la verità: la barba non è per tutti. Ci vuole classe per portarla, ma le ragazze ne sono inconsciamente attratte, e non bisogna fare altro che fingere una minima aria intellettuale.
Avete presente il fascino dei ragazzini alternativi, degli intellettuali, o del genio creativo di designer e architetti? Cos’hanno in comune uno che frequenta il magazzino 47, Umberto Eco, Philippe Starck e Renzo Piano? Non si tratta dell’ideologia politica…
Oggi la barba fa scrittore, o semplicemente sembrare interessante. Per dirla tutta, fa figo.
Negli anni, però, non mi sono accontentato, e sono arrivato a un livello ancora superiore: ho puntato sul baffo.
Un pazzo, penserete voi, quando in realtà ho anticipato di qualche anno Vucinic e Borriello, puntando su un sexy baffetto, che ha fatto raccogliere le mie migliori conquiste.
Una generazione di donne capitolate grazie al mio asso nella manica.
Erano anni che non mi facevo più il baffo. Perchè oramai lavoro, era fuori moda e ha bisogno di molta cura. Sabato ho deciso di interrompere questa pausa e la lama si è fermata all’altezza della bocca. Tanto tempo che non uscivo con questo look, ma i pensieri della mattina mi hanno distratto. Scendendo in strada un neonato dalla carrozzina mi saluta, sbraitando allegramente, facendo preoccupare la madre, che non capisce tale entusiasmo. In macchina un anziano mi si affianca al semaforo. Noto che mi osserva, e, girandomi, questo simpatico personaggio mi rivolge un occhiolino, accompagnato da un sorriso malizioso di chi ti sembra dirti: “Yeah, vai bene così”.
Alzo gli occhi verso lo specchietto retrovisore e mi ricordo. Il mio baffo, come ho fatto a non accorgemene?
Al negozio la commessa inizia a parlarmi, scusandosi perchè alla signora che sta servendo non riesce a fare la fattura. Il computer si è bloccato, ma più di questo mi sorprendo il fatto che una signora 40enne si soffermi a dare spiegazioni a me, quando il negozio è pieno di gente.
Tempo trenta secondi e sceglie di piegarsi a novanta gradi, nella maniera che credo essere meno naturale sulla terra. Al confronto lo spot dell’Arcuri con Marra sembrava spontaneo.
La marca e le cuciture di quei pantaloni di pelle credo non me li scorderò a lungo, ma il computer non riparte. Ecco che arriva prontamente la collega, più giovane e decisamente più sexy. Neanche il tempo di averla davanti, e con lei arriva anche un sorrisino per presentarsi a me. Ancora una volta come se il negozio fosse popolato da poveri idioti che non meritino il saluto.
Un po’imbarazzato faccio un sorrisino, mentre, voltandomi, trovo un mio coetaneo vestito da truzzo che mi fissa con ammirazione. Inarco il sopracciglio sinistro e sporgo le mie labbre, ad esaltare quella delicata linea sotto il naso che impreziosisce il mio look.
Non è male la commessa: un po’ piccolina ma decisamente carina, con un bel fisico e un’aria simpatica, mista ad un sguardo malizioso che non ci sta mai male.
Un paio di converse e dei Jeans, ma soprattutto una magliettina molto scollata, che lascia intravedere un reggiseno color carne. Distratto dall’attesa mi perdo un po’ fantasticare, con il mio sguardo che scorre all’interno del locale, anche se attratto come una calamita da quella T-shirt davanti a me, che realizzo adesso raffigurare Marylin Monroe.
Dall’altra parte la ragazzina non disprezza le mie attenzioni, digita con veemenza sulla tastiera, ma con scarsi risultati. I miei occhi fissano la sua fronte aggrottata, ma ogni tanto scendono più in basso, dove le mie fantasie prendono forma. Rialzo di scatto gli occhi e incrocio i suoi. Se ne è accorta!
Leggero imbarazzo, seguito però da una forte curiosità: ancora oggi mi domando che cosa abbia raccolto, ma sta di fatto che, da lì a breve, vedo chinarsi anche lei – questa volta nella direzione opposta – facendomi ammirare non solo il suo Bra, ma molto di più.
Ho pagato e mi sono diretto verso l’uscita. Non prima però di essermi goduto la faccia del ragazzo alla mia sinistra, che, adesso con la bocca aperta, sembra quasi folgorato di fronte a ciò che ha visto e all’erotismo del mio invidiato baffetto, che mi accarezzo prima di cercare le chiavi della macchina.